I 3.372.512 di italiani o discendenti di italiani nell’area di New York costituiscono il principale gruppo etnico e linguistico della grande area urbana che comprende, oltre a Manhattan, Staten Island, il Nord New Jersey e Long Island, essendo pari al 16 per cento dei 21,2 milioni della popolazione della cosiddetta Greater New York. Essi rappresentano la più grande città italiana degli Stati Uniti e oltre un quinto dei 15,6 milioni di americani che si considerano di origine italiana. Nei confronti di una popolazione così vasta e diversificata, le 236 pagine di questo libro non contengono solo un collage: decine di interviste a persone di ogni età, disseminate nei più vari ambienti della grande città americana, che hanno in comune l’origine dalla nostra penisola. In qualche modo esse offrono anche una storia dell’emigrazione italiana a New York e negli Stati Uniti, dai tempi della grande migrazione a quelli delle mobilità transnazionali contemporanee, in quanto questi oltre tre milioni di connazionali o discendenti di nostri connazionali non condividono la stessa dimensione storica. Per questo motivo è un’impresa disperata oltre che inutile, cercare un minimo denominatore comune fra i pizzaioli e i pasticceri di Brooklyn, i molti poliziotti e vigili del fuoco, i giudici e i professori universitari, gli imprenditori, i rappresentanti di grandi gruppi finanziari, i ristoratori alla moda, i galleristi, gli scienziati e gli artisti che affollano il volume.
Conviene piuttosto ascoltare le loro voci e penetrare attraverso di esse nella complessa stratificazione lasciata da oltre un secolo di arrivi dall’Italia a New York. Questa stratificazione si legge anche nei luoghi, perché se i discendenti degli emigranti e gli ultimi arrivi della più tradizionale emigrazione italiana si trovano ancora nei quartieri che hanno popolato o costruito nella prima parte del ventesimo secolo, il Bronx e Queens, Brooklyn e Staten Island e perfino l’ultimo lembo di Little Italy, i nuovi arrivi si dislocano nei vari distretti della città in base a logiche non di appartenenza etnica o regionale, ma dettate dai campi di attività dove operano: banche e ristoranti, gallerie d’arte e tribunali, ospedali e università. Per questo Maurizio Molinari, che nella sua ricerca si è spinto in tutti i luoghi della presenza italiana a New York, dotando il volume anche di alcune utili mappe per orientare il lettore, ha anche in questo caso utilizzato le sue competenze di storico, oltre che di giornalista. È quanto aveva già fatto nel 2005 con la ricostruzione delle valutazioni e delle strategie operate nei confronti dell’Italia dalla cia, o con l’analisi degli ebrei di New York, che ha fatto da modello all’indagine sugli italiani.
Il volume ricostruisce la mappa degli italiani di New York con un primo capitolo intitolato Il popolo, per ripercorrere in quelli successivi, intitolati alla religiosità, all’Italia, alla politica, al business e alle arti, i molti volti della New York italiana. È nei primi capitoli che il lettore incontra gli strati di sedimentazione più antichi, lasciati dagli arrivi di fine Ottocento e della prima metà del Novecento, e che hanno costruito gradino per gradino la loro integrazione attraverso le istituzioni federali e cittadine: i vigili del fuoco, eroi dell’11 settembre 2001, i membri della polizia cittadina, i giudici e gli uomini politici. Fra le 302 vittime con nome italiano cha hanno lasciato la vita a Ground Zero sono molti i membri del corpo dei Vigili del fuoco e gli agenti del Police Department, confermando come l’entrata in queste istituzioni venga ancora considerata una strada privilegiata per l’integrazione nella società americana, come racconta George Grasso, che fino al 2009 ha ricoperto la carica di First Deputy Commissioner del Dipartimento di polizia di New York. Non diversamente è valutato l’arruolamento nell’esercito, che ha permesso a Peter Pace, figlio di un immigrato dalla provincia di Bari, di raggiungere il più alto grado delle forze armate e a un altro generale di origini italiane, Raymond Odierno, di diventare responsabile dell’esercito statunitense in Iraq. Nel momento della loro maggiore affermazione professionale, la rievocazione delle origini italiane e dei sacrifici fatti dagli avi aggiunge a questi uomini di successo una nota di umanità, derivante da una maggiore consapevolezza del significato della propria cittadinanza: «avere origini italiane mi fa essere una persona migliore» ha dichiarato Peter Pace «Perché mi fa sentire un cittadino del mondo e apprezzare di più l’importanza per l’America di essere una nazione tanto diversa».
A giudizio dello storico Joseph Scelsa, promotore dell’Italian American Museum nel cuore di Little Italy, fra Mulberry Street e Grand Street, «Gli italiani di New York sono oramai tanti e diversi al pari degli altri americani e dunque non esistono più come gruppo isolato». Inoltre, a giudizio di Scelsa, per le generazioni più giovani l’identità italiana è ormai relegata nel campo delle abitudini familiari e del cibo, in un contesto che egli giudica come di fuga dalle proprie radici. A riprova di ciò sta l’evoluzione del quartiere di Nolita (North of Little Italy), che si è trasformato in uno dei tanti posti trendy della città, in cui boutique di lusso, raffinati negozi di alimentari e gallerie d’arte assediano le poche botteghe italiane rimaste, superando anche quei caratteri che per alcuni decenni di fine Novecento ne avevano fatto, secondo la definizione di Jerome Krase, un «parco di attrazione etnica».
In tanta complessità di figure, dalla ricerca di Molinari emergono tuttavia almeno tre stratificazioni, prodotte dalla sedimentazione degli arrivi nel corso del Novecento. La prima è quella dei discendenti degli immigrati della grande migrazione, giunti fra il 1880 e il 1920, un gruppo che si è emancipato dal proprio ambiente etnico grazie agli studi universitari e che, con un severo impegno nel lavoro, ha raggiunto posizioni di prestigio nell’amministrazione dello stato, nell’esercito, nei tribunali, nel mondo politico, La seconda raccoglie quanti sono arrivati negli anni cinquanta e sessanta, che hanno coronato il loro sogno americano con la proprietà di pizzerie, bar e negozi di alimentari come quelli di Arthur Avenue nel Bronx. La terza, infine, completamente estranea al mondo degli italoamericani, è quella dei manager, degli esperti di finanza, degli imprenditori, degli scienziati e degli operatori culturali contemporanei, figure transnazionali per eccellenza, che potrebbero lavorare a New York come a Londra, a Parigi o a Shangai. Il momento e il luogo dove meglio si percepiscono le differenze fra questi gruppi fra loro estranei è il Columbus day. In occasione di questa ricorrenza annuale, nell’abbondanza delle divise dei corpi di polizia, simbolo dell’integrazione, nello sfarzo delle lussuose auto d’epoca dell’industria automobilistica italiana e nella partecipazione emotiva dei discendenti degli emigranti, si misura tutta la distanza sociale, ma anche culturale e storica, fra gli italiani d’America e il gruppo più recente degli italiani in America.
I primi sono quelli che più rievocano gli stereotipi degli italoamericani, quelli riproposti anni fa nei serial televisi dei Sopranos, e ora dal reality Jersey Shore: giovani incolti e dal linguaggio rozzo, vestiti in modo sempre eccessivo e con improbabili acconciature, del tutto meritevoli degli appellativi «Guidos e Guidettes» con cui vengono stigmatizzati. La loro genesi tuttavia, a giudizio di Donald Tricarico, è da individuare nell’incontro fra la classe operaia italoamericana e la cultura pop, che ha trovato la sua massima espressione nei personaggi del film Saturday night fever del 1977. Ma non si tratterebbe che di fenomeni residuali. Per Anthony Julian Tamburri, direttore del Calandra Institute, uno dei più dinamici luoghi di ricerca sulla storia degli italiani negli Stati Uniti, gli americani di origine italiana solo nel 65 per cento dei casi si identificano oggi come italiani, preferendo nel resto dei casi la definizione più neutra di caucasico, per differenziarsi dai «latinos». Inoltre, egli aggiunge, per gli italiani quello degli italoamericani continua a essere un continente sconosciuto: questi infatti risultano agli occhi dei nostri connazionali ancorati tuttora all’immagine negativa degli emigranti in America elaborata nella prima metà del Novecento.
Fra quelli che in modo più accurato hanno individuato le trasformazioni e le molte differenze fra gli italiani della città vi sono i religiosi, come Nicholas DiMarzio, vescovo di Brooklyn e Queens, una delle diocesi più grandi del paese, con 4,8 milioni di fedeli, di cui gli italiani sono 400.000, meno del 10 per cento oppure come padre Barozzi, preposto alla cura di questa minoranza e profondo conoscitore delle complesse motivazioni che sorreggono ancora oggi la vitalità delle organizzazioni criminali, i cui esponenti sono assidui frequentatori e sovvenzionatori delle chiese italiane. Mentre una delle testimonianze più significative dei percorsi di identità e di integrazione attraversati dai discendenti degli emigranti italiani è da ravvisare nelle figure politiche più note da loro espresse. Il raffronto fra la storia e le scelte di due importanti uomini politici come Mario Cuomo e Rudolph Giuliani permette a Molinari di delineare due figure tanto contrapposte quanto egualmente simboliche del rapporto con la politica degli italoamericani. Democratico il primo, figlio di immigrati non anglofoni, e repubblicano il secondo, figlio di genitori già nati negli Stati Uniti e anglofoni, sia Cuomo che Giuliani sono giunti ai massimi gradini dei loro partiti e a giocare la partita delle elezioni presidenziali. Se per ragioni diverse hanno sperimentato il ritiro e la sconfitta, l’emblema della nuova generazione politica sta nella figura di Andrew Cuomo, figlio di Mario e nuovo governatore di New York. Avendo avuto cura di evitare comportamenti troppo etnici, questi potrebbe davvero in futuro aspirare alla carica di capo dello stato, poiché, come per l’attuale presidente, «la sua identità etnica è importante ma non lo definisce, in quanto l’elemento prevalente è l’essere americano».
Fra le numerose figure professionali giunte in anni recenti dall’Italia e condotte nella città statunitense dalle proprie competenze nel mondo degli affari, della ricerca scientifica o dell’imprenditoria, due colpiscono in particolare il lettore italiano. La prima è quella dei manager e finanzieri dell’ultima generazione, giunti a New York in ragione del loro curriculum, che da questo osservatorio sono in grado di cogliere e analizzare le ragioni del declino della presenza economica italiana negli Stati Uniti, dalla scomparsa delle grandi banche a quella dei grandi gruppi industriali. Carenza di management, errori nella politica commerciale, sottovalutazione dell’importanza del giudizio dei consumatori hanno fatto pagare un prezzo assai alto al nostro paese: «siamo stati tattici e non strategici – dice Federico Mennella, fondatore della finanziaria Lincoln International – mettendo a segno singole operazioni di piccolo cabotaggio e non di ampio raggio». Ancora più severe le parole di George Pavia, avvocato, figlio di esuli cacciati dalla politica razziale del fascismo: «gli stilisti e il gusto sono la forza rimasta all’Italia».
Tale affermazione conduce alla presenza più emblematica, nella sua sintesi dei caratteri della tradizione con quelli della cultura italiana contemporanea, che è certamente l’imprenditoria legata alla cucina italiana. I ristoranti, i libri e le trasmissioni televisive di Lidia Bastianich hanno finalmente spiegato al pubblico americano le profonde differenze fra la cucina italiana e quella italoamericana, condizionata dalla mancanza dei prodotti alimentari che le erano propri. Intanto, iniziative come i 7.000 metri quadri di Eataly, aperto in Quinta strada da Oscar Farinetti con la stessa Bastianich, permettono alla clientela di avvicinarsi al meglio della cultura culinaria del nostro paese, ergendola a simbolo di quel connubio fra raffinata innovatività e tradizione che agli occhi degli americani caratterizza l’Italia che essi più amano.
Patrizia Audenino