Dopo l’Unità, per migliaia di abitanti della Penisola, il Nuovo Mondo si fece oggetto di quelle che Emilio Franzina ha definito «aspettative mitemiche» («Le culture dell’emigrazione», Mezzosecolo, 5, 1983/84, p. 289). Gli Stati Uniti catalizzarono una parte rilevante di tali aspettative.
La presenza del mito americano nell’«immaginario popolare italiano» (p. 9) è un punto di partenza ineludibile per una trattazione dell’emigrazione negli Stati Uniti. A buona ragione, quindi, Matteo Pretelli se ne occupa nelle riflessioni introduttive al suo libro. L’esperienza di quanti si recarono oltreoceano, benché sia stata a lungo rimossa dalla memoria storica nazionale – perduta nella damnatio memoriae di cui ha parlato Matteo Sanfilippo (Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette Città, 2002, pp. 21-22) – penetrò a fondo nelle comunità di partenza tanto attraverso le rimesse materiali degli emigranti, quanto attraverso quelle «intellettuali» e «spirituali» (Claudia Dall’Osso, Voglia d’America, Roma, Donzelli, 2007, p. 31).
A dispetto del tardivo riconoscimento accordato in Italia al problema dell’emigrazione, sia dalla storiografia sia dal dibattito pubblico più generale, un’ampia comunità di studiosi svolge attività di ricerca sull’argomento ormai da un cinquantennio, se si individua nel celebre articolo «Contadini in Chicago» di Rudolph Vecoli (1964) l’intervento inaugurale della storiografia sul gruppo italiano negli Stati Uniti, oltre che lo spartiacque nei migration studies americani a partire dal quale è iniziata la rivalutazione della persistenza oltreoceano delle culture degli immigrati. Nella sua introduzione, Pretelli dichiara di voler procedere a una sintesi e infatti si preoccupa, in via prioritaria (Cap. 1), di guidare il lettore attraverso l’ampia produzione bibliografica, gli archivi a disposizione, i paradigmi e le interpretazioni sedimentate nel tempo attraverso il dialogo costante tra le scienze sociali. Gli studi sulle migrazioni, del resto, hanno sempre avuto un carattere interdisciplinare, come dimostra il recente impiego, in ambito storiografico, del concetto sociologico di «transnazionalismo», con il quale è stato avviato quel rinnovamento delle categorie di analisi dei fenomeni migratori di cui Anna Maria Martellone ravvisava la necessità già vent’anni fa per superare la dicotomia assimilazione/pluralismo («National Unity, Assimilation and Ethnic Diversity in the United States», in Valeria Gennaro Lerda (a cura di), From «Melting Pot» to Multiculturalism, Roma, Bulzoni, 1990, p. 20).
Sotto il profilo della struttura, il libro di Pretelli è innovativo. I periodi di indagine più battuti, come la «grande emigrazione» e gli anni «tra le due guerre», benché affrontati in modo esaustivo, attraverso gli aspetti più rilevanti di questa esperienza (il lavoro, le Little Italies, la politica, la religione e così via), occupano solo un terzo del volume (capp. ii-iii). Un capitolo intero, il quarto, è invece riservato al secondo dopoguerra, una stagione a lungo considerata come uno scialbo intermezzo tra l’era degli immigrants e quella degli ethnics, dominato da una seconda generazione intenta, secondo la legge di Hansen, a recidere ogni legame con la terra dei propri genitori. L’attenzione del lettore viene portata su una serie di questioni, tra le quali spicca la ripresa dell’esodo dall’Italia verso gli Stati Uniti. Come afferma Pretelli, questo flusso riacquistò una certa intensità solo in seguito all’entrata in vigore dello Hart-Celler Act del 1965, che abolì l’inviso sistema delle quote nazionali; fino a quella data, infatti, gli ingressi italiani furono limitati per lo più ai ricongiungimenti familiari. Non bisogna però dimenticare che l’intensa attività di lobby delle comunità italoamericane consentì l’ottenimento di deroghe speciali – tra cui, ad esempio, i 60.000 visti assegnati all’Italia dal Refugee and Relief Act nei tre anni di validità del provvedimento (1953-1956) – che almeno in parte neutralizzarono le restrizioni del McCarran-Walter Act.
Sempre in relazione al medesimo periodo, Pretelli dà conto della crescente presenza in politica degli italoamericani. Infatti, gli anni del secondo dopoguerra, benché non ancora sufficientemente esaminati, rappresentarono per questo gruppo etnico una sorta di «arrival stage» (Salvatore LaGumina, «The Political Profession», in Remigio U. Pane (a cura di), Italian Americans in the Professions, Staten Island, American Italian Historical Association, 1983, p. 78). Tuttavia lo stesso autore si scorda di menzionare tra gli esponenti politici Joseph Alioto (1968-1976) e George Moscone (1976-78), celebri sindaci di San Francisco, il primo accusato di rapporti con il crimine organizzato dalla rivista Look, il secondo assassinato in carica. Se messa in relazione al silenzio su Albert Rosellini, il governatore dello Stato di Washington dal 1957 al 1965, la dimenticanza di Pretelli, ancorché veniale, è comunque sintomatica di una ricostruzione dell’immigrazione italiana un po’ sbilanciata sull’esperienza della costa atlantica.
Infine, in sintonia con le tendenze più attuali, l’ultimo capitolo affronta il problema della «cultura italoamericana». Il rischio di rimanere intrappolati nella mera rassegna di personalità di origine italiana divenute celebri in ambito artistico viene aggirato mediante un approfondimento sul rapporto del gruppo italoamericano con il sistema di istruzione pubblica e con la lingua italiana. Queste tematiche, che sono già state oggetto dell’attenzione dell’autore in studi precedenti, mettono a fuoco alcuni nodi fondamentali relativi ai processi di costruzione/trasformazione della «cultura italoamericana»: le dinamiche dell’interazione tra etnicità e cultura americana e le fratture generazionali che attraversano il gruppo etnico. Ancora una volta Pretelli riesce abilmente a conciliare la complessità dei problemi connessi alla storia dell’emigrazione con l’obiettivo essenzialmente divulgativo sotteso a tutta l’opera. Il risultato è un valido contributo alla comprensione di uno «fenomeni di massa più rilevanti nella storia postunitaria italiana» (p. 15).
Tommaso Caiazza