In considerazione del recente risveglio di sentimenti razzisti in Italia, manifestato quasi quotidianamente con episodi di violenza nei confronti di immigrati clandestini e non, sono interessanti le riflessioni e gli interrogativi proposti nel volume di Matteo Sanfilippo che, con un linguaggio asciutto e largamente fruibile, ripercorre la storia delle discriminazioni e dei pregiudizi che hanno accompagnato gli italiani alle prese con l’emigrazione prima agricola, poi più o meno specializzata, politica o artistica, con un particolare riferimento ai casi della Francia, dell’Inghilterra e del Nord America.
La reputazione degli italiani all’estero, dal Medio Evo a oggi, segue l’andamento di un’iperbole che va dall’odio viscerale per i braccianti di origine meridionale dei secoli passati all’odierna ammirazione per i grandi marchi della moda, passando dalla musica all’architettura, al cinema.
Il libro evidenzia come l’ostilità verso gli italiani abbia radici profonde nella storia delle civiltà europee e si sia formata quasi simultaneamente allo sviluppo di una coscienza nazionale nei singoli stati europei. Già a partire dal periodo fra il Trecento e il Quattrocento, infatti, l’emigrazione italiana agricola e stagionale in Francia, in Austria e in Svizzera subì ondate di violenza e discriminazione che già nel Cinquecento si estesero all’Inghilterra e, nei secoli successivi, pure all’America Settentrionale sulla base dell’odio anticattolico, dell’intolleranza etnica e della contrapposizione linguistica, anche come reazione al predominio culturale dell’Italia rinascimentale.
Tra il Cinquecento e il Seicento, nelle maggiori letterature nazionali europee, in riferimento a personaggi italiani, furono utilizzati abbondantemente i temi della decadenza morale, dello spirito machiavellico, della mentalità fondata sull’appartenenza a gruppi familiari e della atavica pigrizia, come dimostrano alcune tragedie di Shakespeare che, non solo in Romeo and Juliet, utilizza stereotipi negativi, e i diari di viaggio di Montesquieu, dove si legge delle presunte nefandezze dei veneziani.
Seguendo l’ordine cronologico, Sanfilippo annota come tra il Settecento e l’Ottocento l’odio anti-italiano si fosse acuito ulteriormente, mescolandosi al nativismo e alle controversie sindacali, spingendo i governi francesi e statunitensi a emanare leggi per regolare i flussi migratori. Un esempio eclatante di xenofobia etno-razziale fu quello degli Stati Uniti, dove la pratica del linciaggio fece numerose vittime tra gli immigrati italiani: si registrarono efferatezze di tal genere nel 1886 a Vicksburg nel Mississippi, nel 1889 a Louisville nel Kentucky, nel 1891 a New Orleans, nel 1893 a Denver, nel 1895 a Walsenburg in Colorado, nel 1896 a Hahnville e nel 1899 a Tallulah in Louisiana. La presunta inferiorità etnica degli italiani fu suffragata dal successo delle teorie del darwinismo sociale e delle tesi di Cesare Lombroso sul legame tra criminalità e fisiognomica.
Durante il Risorgimento, il mito di Garibaldi e di Mazzini contribuì a riscattare parzialmente il disprezzo culturale e politico a lungo patito, ma solo tra i patrioti che condividevano le idee liberali, perché per gli altri, soprattutto dopo l’attentato di Felice Orsini a Napoleone III nel 1858, gli italiani furono assimilati a delinquenti. La preoccupazione, inoltre, crebbe ulteriormente non solo quando si venne a sapere che l’assassino di Umberto i, Gaetano Bresci, era partito da Patterson in New Jersey, ma anche quando si scoprì che un suo compagno di fede anarchica, Leon Czolgosz, fu il responsabile dell’uccisione del presidente statunitense William McKinley nel 1901.
Lungo l’arco del Novecento la valutazione degli italiani restò per lo più negativa, se non per una breve parentesi durante il ventennio fascista con l’esaltazione e la retorica del nazionalismo. Tuttavia furono le conseguenze del Secondo conflitto mondiale che portarono a dubitare ancora una volta degli italiani all’estero, soprattutto in Francia, a causa dell’aggressione da parte del regime fascista, e nell’America del Nord, dove con la successiva guerra fredda emerse pure per il timore che tra gli immigrati o i loro discendenti si annidassero eversori comunisti.
In generale, la metafora ripresa da Ferdinando Fasce (Gente di mezzo, in Bevilacqua, P., De Clementi, A. e Franzina, E. (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002) sugli italiani come popolo-cuscinetto (o in-between) sintetizza bene la posizione dei nostri connazionali all’estero nella seconda parte del Novecento: in Francia e in Belgio si sono collocati tra i nordafricani, un gruppo totalmente emarginato, e i locali, senza tuttavia appartenere né agli uni, né agli altri; così come in Germania fra i turchi e i tedeschi e negli Stati Uniti fra i Wasp e gli afroamericani.
In anni più recenti, l’operosità di alcuni italiani ha tentato di invertire la tendenza all’esclusione e alla discriminazione, ma l’immagine stereotipata del Padrino prevale decisamente sull’ammirazione per personaggi come lo scrittore Roberto Saviano, da anni impegnato nella lotta contro le mafie. Sanfilippo annota nel capitolo conclusivo che il carattere dell’italianità è ormai da anni parte di una società occidentale globalizzata, come dimostra la straordinaria diffusione della nostra cucina.
Non stupisce che il progetto per preservare i legami con l’Italia di una generazione altamente scolarizzata e lettrice del quotidiano America Oggi, portato avanti da Joseph Sciorra – direttore associato per i programmi accademici e culturali al John D. Calandra Italian American Institute di New York – e da alcuni blogger statunitensi di origine italiana, faccia fatica a soppiantare l’immagine grossolana dell’italiano medio cresciuto mangiando spaghetti che viene quotidianamente rappresentata in numerose serie televisive come The Sopranos o Jersey Shore.
Sanfilippo conduce il lettore a sospettare che i pregiudizi nei confronti negli italiani siano sostanzialmente rimasti immutati nei secoli, cambiando semplicemente modalità di espressione, dai trattati di criminologia empirica ai blog, alle serie televisive. Tuttavia questo fenomeno non è tanto dovuto all’odio razionale che all’estero si prova per gli italiani, quanto alla tendenza di questi ultimi a «non fare nulla per offrire una faccia diversa», alimentando, anche dal punto di vista politico, una atavica anomalia italiana che preferisce compiacere piuttosto che farsi rispettare.
Lucia Ducci