Secondo i dati forniti nel 2007 dal Ministero degli Affari esteri il numero delle associazioni costituite fra gli italiani all’estero è di 5.944, nate soprattutto dal secondo dopoguerra in poi. Osservando la dislocazione territoriale emerge che praticamente ovunque sono sorte aggregazioni di italiani, anche se con una elevata concentrazione nel continente europeo: in Svizzera con 884 associazioni, seguita da Francia (445), Germania (319) e Belgio (264). Appare chiaro che in riferimento al contesto europeo l’associazionismo italiano in Svizzera risulta essere quello più sviluppato. Tale mondo è articolato in un gran numero di strutture: accanto a movimenti che aggregano forze di sinistra (come le Colonie libere riunite nella Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera), quelle cattoliche (acli) e quelle di destra (i Comitati tricolore) esistono le Missioni cattoliche, le associazioni provinciali e le federazioni regionali, i patronati, i gruppi femminili, i gruppi di scrittori, i gruppi folkloristici, i circoli culturali, gli enti di formazione. È questa una realtà che è stata storicamente molto ricca e vivace, ma che oggi sembrerebbe essere percorsa da una profonda crisi, comune a tutto il mondo associativo italiano diffuso in Europa.
«Nel 1979 il Registro delle associazioni italiane in Svizzera, presso l’Ambasciata d’Italia, conta 699 associazioni. Due terzi di quelle esistenti secondo il giornale «Emigrazione Italiana». Nel 1984, il Ministero degli Affari Esteri italiano recensisce 1101 associazioni italiane in Svizzera. Nel 2004, secondo l’Ambasciata Italiana a Berna, ne restano 747». Inizia così il documentario di Morena La Barba (con Sandro Cattacin) dedicato alle associazioni italiane in Svizzera e realizzato a seguito di una ricerca condotta al Dipartimento di Sociologia dell’Università di Ginevra e prodotto dalla Commission Fédérale des Etrangers in collaborazione con il Forum pour l’Intégration des Migrantes et des Migrants (fimm), la Federazione delle Colonie Libere Italiane e il Forum Suisse pour l’étude des Migration et de la population. Per la precisione, il lavoro di Morena La Barba si compone di due documentari. Il primo, Le associazioni italiane in Svizzera, ripercorre in 35 minuti i momenti più significativi dell’evoluzione dell’associazionismo italiano in Svizzera, mettendo in evidenza una situazione di crisi e volendo stimolare una riflessione sul suo futuro e sul ruolo delle nuove generazioni. Il secondo, intitolato L’altra cosa e della durata di 58 minuti, è realizzato partendo dalle discussioni che la visione del primo documentario ha scaturito tra i membri delle associazioni di sei differenti, ma significative, località svizzere (Sciaffusa, Basilea, Zurigo, Renens, Friburgo e Bellinzona). Inutile dire che la visione di questo secondo documentario è molto importante per capire i malesseri e i motivi della crisi dell’associazionismo.
Nel primo documentario attraverso l’intervista a tre testimoni chiave – che rappresentano «tre generazioni, tre mondi, tre visioni» – si ricostruisce il ruolo e l’importanza che l’associazionismo, a partire dagli anni cinquanta, ha rivestito nei confronti dell’emigrazione italiana. A questo proposito la regista individua tre momenti significativi che ne hanno contraddistinto la storia, sia dal punto di vista interno, nei confronti degli emigrati, sia da quello più marcatamente esterno, con risvolti nei confronti della società svizzera. Tre dunque sono i capitoli, che corrispondono anche alle tre testimonianze: «Militanze. La lotta per i diritti sociali e l’educazione alla coscienza di classe» il primo, «Culture Regionali. Dall’identità sociale all’identità culturale» il secondo e «Dialoghi identitari. Le differenze tra generazioni e la ricostruzione soggettiva della migrazione» l’ultimo.
Nel primo Leonardo Zanier, presidente onorario della Federazione delle Colonie Libere italiane, racconta il ruolo svolto dalle Colonie libere – che già alla metà degli anni sessanta potevano vantare una robusta e capillare presenza nel territorio elvetico – a sostegno e aiuto nei confronti dei flussi migratori italiani. Sono gli anni in cui gran parte degli emigrati, stagionali o nei casi migliori con permesso annuale, alloggiavano nelle baracche dove, dice Zanier, il rischio che «uno si mette a giocare a carte e a bere birra e magari finisce in un giro tremendo» era molto alto. E in questo senso il ruolo delle colonie era duplice, dovevano sia costituire un luogo di socializzazione alternativo alle baracche, sia un punto di ritrovo dove oltre ai classici passatempi si poteva anche discutere di questioni più politiche e legate alla problematica migratoria perché «l’emigrazione non è solo aggregazione di nostalgie, di giocare, di tempo libero, è un discorso dei diritti, di diritti di cittadinanza». Sebbene nel documentario non se ne parli direttamente, bisogna ricordare a partire dalla fine degli anni cinquanta, a fianco dell’attività delle Colonie libere, iniziavano a svilupparsi grazie alla collaborazione con le missioni cattoliche le prime associazioni legate ai cattolici, il Gruppo operai italiani (1959) e nel corso del decennio successivo la larga diffusione dei circoli acli. A questo proposito Morena La Barba ha deciso, visto il ruolo importante che questo tipo di associazionismo ha rivestito nel corso degli anni, di inserire nel dvd un bonus con l’intervista a Luigi Zanolli, vicepresidente della Federazione acli Internazionali.
Comunque la decisione della regista di scegliere le Colonie libere come rappresentative di un certo modello di associazionismo poggia su di un solido fondamento storico: nel secondo dopoguerra furono le prime e per un certo periodo praticamente le uniche associazioni che, a esclusione delle Missioni cattoliche, che per la loro peculiare natura non possono però essere considerate sullo stesso livello, rivestirono un ruolo fondamentale sia a sostegno dell’emigrazione italiana sia di rivendicazione. Si tratta di un aspetto di rilievo, soprattutto se si osserva quanto è avvenuto negli altri paesi europei, dove non troviamo nessun tipo di associazione così articolata e strutturata espressione dell’auto-organizzazione degli emigrati.
Tornando al documentario, dal racconto di Zanier emerge chiaramente, grazie anche al sapiente utilizzo di filmati di repertorio tratti dai lavori di Alvaro Bizzarri, il clima politico-sociale all’interno del quale quel tipo di associazionismo si muoveva: da un lato si realizzarono saldature importanti tra le battaglie del movimento operaio svizzero e le rivendicazioni delle associazioni italiane, dall’altro si assisté alla larga diffusione di movimenti xenofobi, che combattevano aspramente le associazioni tra immigrati. Si capisce come la rete di associazioni non è solo servita da sostegno materiale e protezione nei confronti delle prime migrazioni, ma si è anche configurata come strumento di rivendicazioni sociali e sindacali.
A partire dagli anni settanta, grazie anche all’istituzione in Italia delle regioni a statuto ordinario, a fianco di questo tipo di associazioni iniziarono a sorgere anche quelle di stampo regionale, che nella maggior parte dei casi nacquero e si svilupparono, almeno nei primi anni, proprio all’interno delle precedenti esperienze. C’è quindi una sorta di continuità, anche se rispetto a esse questo tipo di associazionismo aggiungeva una nuova dimensione identitaria alla dinamica migratoria che in quegli anni, segnati da forti manifestazioni xenofobe, divenne un luogo di rifugio e riferimento simbolico.
A questo tema, l’associazionismo regionale, è dedicato il secondo capitolo del documentario. La testimonianza di Leoluca Criscione, presidente della Famiglia siciliana di Pratteln e fondatore dell’Unione delle Federazioni delle Associazioni Regionali in Svizzera, mette bene in luce come il ruolo di questo tipo di associazionismo non sia stato solo quello di creare un ponte identitario e culturale con l’Italia, attraverso il mantenimento di legami con la regione di riferimento, «ma anche di cercare di aiutare, momenti di assistenza, difficoltà, si accompagnava moltissima gente quando si andava in comune, dal medico». Lo scopo principale di questo tipo di associazionismo rimaneva sempre quello di aggregare i corregionali al fine di mantenere vive le proprie tradizioni folkloriche e linguistiche, come si vede anche dal tipo di manifestazioni che vengono organizzate. Tuttavia in molti casi le associazioni hanno avuto la tendenza ad assumere anche un ruolo di mediazione tra i migranti e i rispettivi territori di partenza, diventando a volte un partner privilegiato di promozione e di relazione con le regioni. Ed è proprio da qui che nasce il problema del disinteresse di gran parte degli emigrati di seconda e terza generazione, che vedono in maniera differente il legame con la terra d’origine e sentono distanti i modelli associativi tradizionali. Non dimentichiamo che le caratteristiche e il contesto dell’emigrazione italiana in Svizzera è profondamente cambiato. Gli impellenti bisogni materiali e non, che hanno contraddistinto la prima emigrazione, e ai quali l’associazionismo ha pienamente sopperito, oramai non esistono più.
Altri sono i problemi, soprattutto per le seconde e terze generazioni. Così a partire dalla metà degli anni novanta assistiamo a un progressivo calo di questo tipo di associazionismo, ma più in generale di tutto l’associazionismo tra migranti. Ciò non vuol dire che le seconde e terze generazioni siano totalmente assenti dalla scena pubblica, anzi è proprio vero il contrario: alcune nuove associazioni sono nate in questi ultimi anni, ma la maggior parte dei loro membri non vuole avere niente a che fare con il vecchio tipo di associazionismo.
A questi aspetti è dedicato il terzo capitolo del documentario. Barbara Giongo, fondatrice dell’associazione culturale «La bottega. Centro di rimozione cultura di Ginevra», si chiede «cosa vuol dire per me essere italiana […], loro [i genitori] non capiscono cosa vuol dire per me essere italiana». Emerge chiaramente la necessità di sviluppare delle forme organizzative nuove, che si discostino da quelle elaborate dai loro genitori: «la bottega era fare una cosa nostra, il primo bisogno era semplicemente egoista, la nostra voglia, il nostro bisogno di fare qualcosa per organizzare eventi culturali a Ginevra. L’idea di rimescolare la cultura». È la stessa visione dell’Italia che cambia: non più quella nostalgica e idealizzata dei propri genitori, che l’hanno vista in un’ottica di ritorno, che in molti casi si è rivelata illusoria. Il volto dell’associazionismo è cambiato, le nuove associazioni che sorgono sono caratterizzate da una vocazione più marcatamente culturale e meno identitaria. Esemplificativo è il caso, anche se non compare nel documentario, dell’associazione ginevrina Cultura Italia, fondata nel 2005, che ha come scopo organizzare e promuovere «nel territorio di Ginevra attività culturali legate all’Italia e allo scambio culturale: cineforum, gastronomia e cultura, apero’ letterari, concerti, dibattiti, o semplici incontri».
Il malessere, la disaffezione che percorre il mondo associazionistico viene messo bene in luce soprattutto nel secondo documentario, L’altra cosa. Dai dibattiti scaturiti dalla visione de Le associazioni italiane in Svizzera emerge chiaramente un certo pessimismo, c’è chi addirittura sostiene che «fra dieci anni non esisterà più niente». Il problema sembra essere individuato soprattutto nel disinteresse dei giovani verso un tipo tradizionale di associazionismo: «la nostra generazione ha portato avanti come meglio ha potuto il nostro associazionismo, i nostri giovani sono nati e cresciuti qua e hanno altri interessi, e secondo me loro vogliono strutturare le associazioni in un altro modo, non come lo abbiamo fatto noi, forse bisognerebbe lasciargli più spazio a questi giovani di costruire qualcosa come vogliono loro per poterci andare dentro e divertirsi e portare avanti l’italianità […], siamo arrivati al capolinea di questo tipo di associazionismo». È di per sé un dato significativo notare che la partecipazione dei giovani alla proiezione del documentario sia abbastanza scarsa, ma ciò non significa che la seconda e la terza generazione siano egoisticamente ripiegate solo sui propri bisogni. A tale proposito un ragazzo di terza generazione sottolinea: «io oggi posso militare in associazioni che non sono italiane per gli italiani, posso militare in associazioni che sono svizzere per gli stranieri […], l’importante è che se voglio militare non sono più obbligato a militare in una associazione italiana per gli italiani e questo deve essere considerato un successo di chi è venuto prima». È un cambiamento di prospettiva, dovuto da una parte al naturale processo di integrazione, dall’altra dalla volontà da parte delle generazioni successive di creare qualcosa di diverso che molte volte si pone in contrasto con quello dei propri genitori.